A spoglio quasi ultimato, le elezioni in Regno Unito ci offrono una serie di spunti di riflessione, validi soprattutto per valutare cosa stiamo facendo e dicendo a casa nostra, cioè in Italia e in Unione Europea su temi come legge elettorale,politiche del lavoro, strategie politiche, forza contrattuale rispetto ai falchi di Bruxelles. Vediamole, punto per punto.

1. David Cameron con circa il 35% dei voti espressi (quindi circa il 25% degli aventi diritto al voto) si prende il 51%  e rotti dei seggi parlamentari. Tra voti presi e seggi ottenuti c’è una differenza di quasi 17 punti percentuali, senza ballottaggio, con seggi vinti per uno scarto di 300, 500 o mille voti, in collegi di circa 100 mila votanti; in ogni collegio tutti gli eletti – sottolineo TUTTI- sono stati nominati dai rispettivi partiti. La preferenza è unica (se voti quel Partito voti quel candidato e basta). In Italia questo sistema elettorale sarebbe bollato come antidemocratico e la Camera dei Comuni stigmatizzata come un Parlamento di nominati. In più, considerando che la Camera dei Lord è veramente una rappresentanza di nominati, la mancanza dei contrappesi (come si usa dire oggi per ammantare di logica un vuoto politico e culturale di enormi dimensioni) la situazione britannica post elezioni 2015 verrebbe definita (senza alcun senso del ridicolo) di deriva  dittatoriale. Il problema è che non si sa se ridere per il pressappochismo o piangere per le miserie messe in mostra, soprattutto dalla minoranza della minoranza del PD.

2. Uno dei punti dirimenti della campagna elettorale del Labour Party è stato la lotta ai cosiddetti zero-hours contracts, che, tradotto in modo schematico ma con un buon grado di approssimazione, significa lavoro precario istituzionalizzato. Nella patria della Common Law ovviamente non esiste alcuna codifica normativa, ma viene applicato a circa un milione di lavoratori e il fenomeno è in costante crescita, soprattutto nei servizi (ma anche nell’ormai ridotto all’osso sistema industriale britannico). Gli zero-hours contract prevedono un massimo di 25 ore settimanali, senza garanzie di stabilità e senza alcun sostegno sociale (ferie, malattie, maternità, tanto per dirne alcune). E’ stato uno degli strumenti che ha consentito di riassorbire almeno in parte la disoccupazione nel Regno Unito. Il Labour ha sposato la causa dell’abolizione senza mezzi termini, ignorando perfino una recente ricerca che dava risposte contrarie: oltre il 50% dei lavoratori a zero-hours contract riteneva utile questo strumento e, probabilmente, anche una larga maggioranza di chi è ancora disoccupato preferirebbe, al sussidio, un lavoro precario. Nessuno, ad eccezione della destra conservatrice,  sostiene che questi contratti  debbano essere istituzionalizzati: lo stesso Economist, che certo non può essere definito l’organo della sinistra, dichiara senza mezzi termini che sono una necessità congiunturale, per far uscire il Paese dalla crisi.

In Italia ci sono state barricate parlamentari, anche all’interno del PD,  e sindacali contro lo Jobs Act che va in senso contrario: trasformare il lavoro precario in lavoro a garanzie crescenti e in lavoro a tempo indeterminato. Nello stesso tempo si va parlando di reddito di cittadinanza: cioè sborsare pubblico denaro per chi sta fuori dal mercato del lavoro e fuori del mercato del lavoro continua a stare. Cioè assistere e non creare le condizioni per il lavoro. Le abolizioni secche non portano a niente: i processi, tutti i processi, richiedono di essere gestiti e non negati. Forse i laburisti inglesi impareranno qualcosa; non so la sinistra italiana.

3. Miliband ha resuscitato in questa campagna elettorale tutto l’armamentario del vecchio Labour, quello per intenderci controllato dalle Trade Unions e prima di Tony Blair. Ha posto al centro della sua campagna una tassa  sui patrimoni superiori a 2 milioni di sterline; ha ignorato, appiattendosi sulle posizioni dei Conservatori, le domande che vengono dalla Scozia (una volta, roccaforte rossa); ha posto la scelta tra lavoratori e padroni (con noi e contro di loro). Ha ignorato le domande e le aspettative della classe media, che nel Regno Unito, come in tutto il mondo occidentale, rappresenta circa due terzi dell’elettorato: il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il Labour è tornato, in termini di seggi parlamentari, al 1987. La classe media non conservatrice che si identificava con  LibDem non si è sentita garantita dal Partito Laburista e Cameron ha avuto gioco facile a prosciugare  i Liberaldemocratici, ridotti al lumicino (6 deputati, una cinquantina di meno rispetto alle precedenti elezioni). Sull’altro fronte lo Scottish National Party (che ha dichiarato fin dall’inizio di voler formare un governo di coalizione con il Labour, ma Miliband ha sdegnosamente rifiutato l’offerta!) ha nullificato la presenza laburista, che si riduce a 1 seggio, contro i precedenti 41. La stessa destra xenofoba e fascistoide che si ricosceva nell’UKIP (che riesce a eleggere un solo deputato) alla fine ha scelto il cavallo vincente (Cameron), mentre come al solito, in un Paese il cui sistema elettorale non ammette frazionamenti, la sinistra (Verdi, Socialisti ecc.) ha visto bene di recitare la solita, inutile, azione di testimonianza. Facendo vincere Cameron. I flussi elettorali sono, ovviamente, più complessi, ma la struttura portante è questa.

4. Il fronte della sinistra europea è sempre più debole: le socialdemocrazie inglesi, francesi, spagnole e tedesche non riescono più a vincere e , soprattutto, sono in costante regresso. Il loro peso, politico anche se non parlamentare, a Bruxelles è sempre meno determinante e il centrodestra europeo esce ulteriormente rafforzato da queste lezioni britanniche. Sarebbe utile a tutti una seria riflessione in seno al Partito dei Socialisti e Democratici europei, prima che sia troppo tardi e prima, soprattutto, che la crisi socialdemocratica e dell’intera sinistra europea sia irreversibile.

5. Ed Miliband si è dimesso. In ogni paese civile chi perde se ne va, assumendo su di sé le responsabilità della sconfitta, e non cerca di fare a tutti i costi un governo o tenta di far eleggere un Presidente della Repubblica. Chi perde lascia il posto a chi ha una proposta alternativa all’interno del suo Partito. Si adegua alle decisioni della maggioranza, fa politica contro l’avversa parte politica e non in modo sistematico contro il proprio Segretario, per di più anche Presidente del Consiglio. Preparandosi a dare battaglia al prossimo Congresso. Ma questo in un Paese civile, in Italia no.