Lo scempio di Milano ad opera dei cosiddetti black bloc (occorre sottolineare, nel silenzio degli altrettanto cosiddetti ‘pacifici manifestanti’) ha posto sul tavolo la necessità di prendere una posizione, a chi ovviamente ama prendere posizione e non restare nella penombra delle idee degli altri, magari mandando solo qualche insulto sui social network, così, tanto per illudersi di essersi puliti la coscienza.

Sui risultati ignobili della manifestazione di Milano c’è poco da dire: le immagini e i fatti parlano da soli, e lo stuolo di sdegnate condanne – compresa la mia- è talmente grande che viene da pensare che gli unici NoExpo fossero quelli in piazza ieri. Ma non è vero: il mondo anti Esposizione Universale è molto variegato, spesso silente, a volte con scarse informazioni. Se dovessimo giudicare l’Expo di Milano sulla base di alcuni progetti urbanistici (attenzione però: esterni all’Esposizione in sé) e sullo scandalo degli appalti truccati, delle tangenti e della corruzione, altro che NoExpo! Verrebbe da dire NoMilano, perché poi le mani sporche ciclicamente ce le ritroviamo lì. Ma sarebbe ingiusto e troppo parziale.

Quindi, ragionare pacatamente sull’Esposizione Universale richiede prima di tutto la capacità di liberarsi da preconcetti ideologici e talmente macro da essere evanescenti (l’Expo è una modalità del capitalismo e dell’imperialismo mondiali)   e quella di separare il grano (l’opportunità che Expo 2015 concede a tutti di riflettere su potenzialità e limiti dello sviluppo, anche alimentare) dal loglio (le nefandezze di chi – alcuni, non tutti, per fortuna- ha gestito l’edificazione dello spazio espositivo, con annessi e connessi). Lo ha capito – e non c’erano dubbi che fosse così- molto il bene il Papa, che ha esortato a cogliere l’opportunità Expo per globalizzare la solidarietà.

Come tutti sappiamo l’Esposizione Universale nasce a metà del XIX secolo sulla base di idee positivistiche, che volevano dare uno spazio di visione e condivisione al progresso che si affermava nei Paesi occidentali: il progresso tecnico e le scoperte scientifiche garantivano a tutti il miglioramento delle condizioni di vita e favorivano le integrazioni tra i popoli. Detto in soldoni, ma più o meno era così. Ci ha pensato il XX secolo a mettere una pietra tombale su queste idee, con guerre disumane, rivoluzioni, olocausti, fascismi, comunismi, rivolte, lotte di liberazione, crisi economiche di dimensioni gigantesche. Tuttavia, l’Expo è andata avanti, tra stop and go, tanto che quella di Roma del 1942 non si è- ovviamente- tenuta, ma ci ha lasciato un bel quartiere, l’EUR appunto.

Un’ Expo è un enorme sforzo organizzativo finalizzato, oggi, a mettere assieme il maggior numero di Paesi che portano il loro contributo ad un tema specifico (Aichi fu la saggezza della natura, Shanghai la qualità della vita urbana, Milano è nutrire il pianeta e l’energia della vita). Temi radicali per far crescere a livello mondiale la consapevolezza e la coscienza della necessità di uno sviluppo sostenibile, per noi, i nostri figli e i nostri nipoti.

Si dice: Expo è una manifestazione commerciale e una kermesse. La prima è un’affermazione priva di fondamento: in un’Expo si vende tutt’al più il magiare e i gadgets. Le aziende che concorrono ai padiglioni nazionali sono semplici sponsor e non vendono proprio niente: c’è un sistema mondiale di fiere commerciali specializzate che dànno maggiori ritorni, cui le aziende partecipano, peraltro a proprie spese. La seconda è un male inevitabile (se di male si tratta): qualsiasi manifestazione che dura sei mesi e richiama milioni e milioni di visitatori è una kermesse.

Posso dire quello che ho visto e capito io di un Expo, sulla base dell’esperienza di aver partecipato attivamente alla realizzazione del Padiglione Italia e dei punti di ristorazione italiana all’interno di Aichi 2005. Un lavoro gigantesco, cominciato anni prima, per acquisire spazi, sponsor, Enti Locali, progetti, prodotti. Lo scopo: offrire l’immagine dell’Italia,con le sue proposte progettuali, la sua capacità di fare, le sue eccellenze misurate sul tema specifico dell’evento.

Il Padiglione Italia e il sistema di punti ristoro italiani sono stati, ad Aichi, i più visitati, dopo, ovviamente, il Padiglione del Giappone: più di tre milioni di visitatori. Fuori dei ristoranti italiani ci sono state , perennemente, file di tre-quattrocento persone. Il ritorno di immagine dell’Italia è stato eccezionale: decine e decine di servizi giornalistici e televisivi sulla stampa e sui media giapponesi. Con un ritorno economico, sia sul lato del turismo che commerciale, molto significativo, a beneficio di centinaia di aziende e migliaia di lavoratori italiani.

Si dice, e poi chiudo, che però a Milano sulla nutrizione del pianeta ci sono le multinazionali del food, spesso fast non di rado junk.  Ma…

Ho scritto queste note su un computer prodotto da una multinazionale, su un sistema operativo inventato e diffuso da un’altra multinazionale, lo trasmetterò per via informatica attraverso i servizi di un’altra multinazionale e lo pubblicherò su social ideati e gestiti da altre multinazionali.

O forse è meglio la penna d’oca e il piccione viaggiatore?