Quello che uscirà fuori dal vertice di Minsk sarà di capitale importanza per il futuro dell’Ucraìna, della Federazione Russa e dell’Unione Europea. Le conseguenze di decisioni monche o inadeguate possono essere terribili, perché sappiamo da dove si comincia ma non dove si andrà a finire.

Non sono un esperto, ma ho vissuto e lavorato a Mosca e Kiev per diversi anni: provo a sviluppare qualche riflessione.

La grande via centrale che attraversa Minsk arriva da Mosca e porta in Polonia, a quel confine di Brest dove Trotzky firmò la fine della guerra della nascente Unione Sovietica, nel 1918. Amici e conoscenti bielorussi mi raccontavano accorati, qualche anno fa, dello stato di degrado e morte che quelle regioni di confine con l’Ucraìna vivono dopo il disastro di Chernobil del 1986: le falde contaminate dalle radiazioni di uranio hanno mietuto vittime su vittime, in gran parte bambini.

Russia e quella che dai primi anni ’90 chiamiamo Ucraìna hanno avuto rapporti intensi, contrastanti e spesso violenti, in un arco di tempo di più di mille anni. Ricostruire passo passo tutto il percorso è fuori discussione. Sottolineare alcuni passaggi forse è utile, per capire oggi quali sono i sentimenti, oltre agli interessi di bottega, di chi siederà al tavolo per tentare di trovare una via d’uscita alla crisi sempre più macchiata dal sangue di troppi innocenti.

Ne segnalo tre, per comodità e sintesi.

Il primo è un ancoraggio storico, che serve a mettere a fuoco una dimensione del problema: il termine Rus appare per la prima volta in documenti ufficiali attorno all’anno mille, a Kiev. Si dice spesso  ( o almeno si era soliti dire) che Kiev è stata la prima città russa, certo prima di Mosca, senza dubbio prima di Pietroburgo. Mi piace ricordare, per l’amore che porto alla letteratura russa, che uno dei maggiori scrittori russi del secolo scorso, Bulgakov, l’autore de Il maestro e Margherita e di Cuore di cane, era nato a Kiev ma  ha scritto i suoi capolavori nel cuore di Mosca.

Il secondo è la controversa e terribile annessione all’Unione Sovietica (avvenuta a tappe dolorose, decisa a tavolino, brandello dopo brandello) dell’Ucraìna. Al centro di Kiev c’è un monumento che ricorda lo sterminio perpetrato dallo stalinismo di milioni di ucraìni negli anni ’30, quando la follia del primo piano quinquennale non conosceva limiti, logici e umani. La collettivizzazione forzata ha causato la morte per fame stenti e repressione di milioni di persone. Questo sterminio ha un nome: holomodor.

Il terzo è il disastro di Chernobil: una centrale nucleare a bassa tecnologia e pensata più a fini bellici che per lo sviluppo del Paese, la cui esplosione ha causato una tragedia di dimensioni epocali. Le conseguenze sono ancora tutte da valutare, ma un dato è certo: Chernobil ha segnato l’inizio del processo irreversibile del crollo dell’URSS e del cosiddetto socialismo realizzato.

Chi frequentava  la Kiev del 2011 e 2012 capiva benissimo che qualcosa di grave e di irreversibile sarebbe successo: ogni giorno le strade attorno al Parlamento e al palazzo del governo erano occupate – a volte da poche centinaia, altre da migliaia- da manifestanti contro qualcuno e contro qualcosa. La via principale di Kiev era un presidio permanente, giorno e notte, per la Tymoshenko.

Solo un cieco, un sordo o, peggio, uno in cattiva fede non poteva capire che prima o poi ci sarebbe stata l’esplosione. E così è stato.

Le manifestazioni che sfociano in cambiamenti radicali e nel sangue hanno spesso in sé elementi contraddittori, risvolti inquietanti.

Vivevo a Pechino nel 1989 e quella che viene chiamata la rivolta degli studenti e di piazza Tienanmen è stata qualcosa di molto complesso e di difficile lettura. Su quella piazza ci ho passato decine e decine di sere, tra aprile e giugno ’89 : studenti, sì, molti; ma anche operai e gente comune, e molti molti personaggi indefinibili: ciascuno con i suoi slogan e i suoi obiettivi, spesso in contrasto o apertamente antitetici. Ho vissuto la notte della repressione e degli scontri sanguinosi, con centinaia o migliaia di morti: degli insorti, ma anche dei militari. Ho vissuto la conseguente legge marziale.

La Cina che ne è uscita è uno dei Paesi più illiberali e repressivi della storia dell’umanità. E in ogni caso non migliore di prima. In Russia c’è un tentativo di democrazia rappresentativa, di faticosa libertà di stampa, di militante libertà d’opinione. In Cina nulla di tutto questo: ma l’Occidente è in ginocchio di fronte ai soldi, che non puzzano, dei Signori di Pechino. Investimenti, acquisti di quote consistenti di debito, potenziale mercato di consumo (molto potenziale, in realtà): della Cina nessuno si lamenta, anzi viene sempre descritta come una ‘opportunità’. Alla faccia della democrazia e dei diritti umani.

La Russia, con la sua balbettante democrazia autoritaria, è avanti decenni rispetto alla Cina: ma l’Orso russo è sempre cattivo e bolscevico.

Così a Kiev è sceso in piazza il popolo, ma poi alla fine lo scontro lo ha gestito la destra fascista e militarizzata, più o meno eterodiretta.

L’equilibrio si è rotto e tutto quello che è seguito dopo è la conseguenza della conseguenza.

L’Ucraìna è un Paese indipendente, la cui integrità territoriale non può essere messa in discussione; ma in Ucraìna vivono almeno 25 milioni di russi, i cui diritti non possono essere calpestati, come si è lasciato che succedesse nei Paesi Baltici.

La soluzione militare è senza prospettive; quelle delle sanzioni e della guerra fredda appartengono ad una logica e ad un epoca che non vogliamo più vedere; il nazionalismo panrusso è senza senso e fuori della storia. Un fatto è certo: l’Ucraìna è un affare degli Europei: degli europei della UE, di quelli ucraìni e di quelli russi. Tutti gli altri debbono starne fuori. Speriamo che a Minsk vinca la ragione. Per tutti.