Partiamo subito da due osservazioni, forse marginali ma necessarie. La prima riguarda lo scarto infinito che corre tra il titolo italiano (C’era una volta a New York) e quello originale (The immigrant): l’incredibile (subdola?) stupidità di chi impone certi titoli andrebbe premiata ogni anno, con un premio speciale. Perché se la traduzione fosse stata L’immigrato, tutti avremmo pensato a Lampedusa e l’appeal, triste ma sappiamo terribilmente vero, sarebbe stato molto molto più limitato. La seconda riguarda il titolo inglese/americano: già Charlie Chaplin aveva realizzato un film con lo stesso titolo, quasi un secolo fa (nel 1917, per essere precisi). Certo la levità di Chaplin è una cosa, la cupezza di James Gray è un’altra: ma il primo girava quando i drammi del film di Gray erano in pieno svolgimento e tentava di criticare, con l’abituale triste sorriso e con quella levità, un sistema infame e doloroso. Il secondo ci fa i conti, essendo lui stesso discendente di immigrati russi.
Da un punto di vista della storia C’era una volta a New York non ci dice certo molto di più di quanto non sapevamo o non era stato detto in altri film (The Gangs of New York, i crudi film del selvaggio West, Main Street e via cantando): gli Stati Uniti sono il frutto di un processo di amalgama di diversità esorbitanti, maciullate, tritate, ridotte in poltiglia dalla lotta per la sopravvivenza, il successo e la ricchezza, senza altra regola che quella della giungla (Giungla d’asfalto è un film riassuntivo, a questo proposito).
Gray non fa nulla per andare oltre e fa bene: quello che ci serve è una lunga carrellata su quell’America, sognata da milioni di disperati in cerca di fortuna, di pace, forse solo di pane, ma che in moltissimi casi hanno trovato solamente miseria, abbrutimento, fame, delinquenza e mafie.
L’ocra scuro, il grigio, il celeste piombo sono i colori fondamentali, in un quadro dominato dal buio e dalle ombre. Negli esterni non c’è mai il sole e gli interni sono illuminati solo dalle deboli luci di ambiente: una lampadina, un piccolo lampadario, le luci di un miserabile teatrino di quartiere.
Queste tinte fosche, ambigue, tristi fanno da sfondo ai rapporti umani, che sono violenti, degradati e venali: prostitute disperate, magnaccia, tenutarie di bordelli, funzionari e poliziotti corrotti, perbenisti senza scrupoli e senza cuore. L’amore (tra sorelle, tra parenti , tra uomo e donna) stenta a trovare spazio ed è un doloroso esercizio quotidiano.
Come sempre grande Joaquin Phenix, un po’ troppo di maniera Marion Cottillard, appropriato Jeremy Renner.
Da vedere.