Perplesso. Così mi sono sentito, quando, dopo tre minuti di film, mi sono reso conto che Il nome del figlio della Archibugi non era altro che il rifacimento di un film francese di qualche anno fa, Cena tra amici (ovviamente massacrato da chi decide i titoli dei film stranieri distribuiti in Italia, visto che il titolo originale era Le Prénom). Ancora più perplesso, e a tratti inquieto, quando , nel corso della visione, mi sono reso conto che, mutatis mutandis, i dialoghi erano la copia dell’originale. La domanda che sorge spontanea è: perché rifare un film di altri? Perché rinunciare alla originalità? Il cinema non è teatro, nel cui ambito va da sé che la riproposizione, usando chiavi di lettura e spunti di regia diversi, consentono originali interpretazioni del testo e drammatizzazioni diverse. Il cinema è la fabbrica del nuovo, almeno nel 99% dei casi.
La Archibugi e Piccolo rimescolano le carte: da Creteil al Pigneto, da Adolfo a Benito, dallo scontro ideologico al siamo tutti figli di mamma (anche se mamma ha qualcosa da nascondere, in realtà). Emerge anche una Palocco, povera e proletaria, alternativa a Casalpalocco (per i non romani: un quartiere residenziale immerso nel verde, non lontano dal mare): vivo a Casalpalocco da trent’anni e Palocco, tra le tante periferie realmente suburbane e proletarie, sinceramente, non so dove sia.
Quattro amici, che hanno legami strettissimi fin dall’infanzia e l’adolescenza, si ritrovano a cena a casa di Betta e Sandro (Valeria Golino e Luigi Lo Cascio), sorella e cognato di Paolo Pontecorvo (Alessandro Gassmann), insieme a Claudio (Rocco Papaleo), in attesa che arrivi Simona (Micaela Ramazzotti), moglie di Paolo e scrittrice sgrammaticata ma di grande successo e, cosa importante, incinta. Betta e Paolo sono figli di un dirigente e deputato comunista, Emanuele Pontecorvo. La prima ha sposato Sandro (intellettuale di sinistra e docente universitario frustrato, i cui libri vendono al massimo 400 copie); Paolo è un agente immobiliare, ignorante ricco e berlusconiano nel profondo dell’animo e dei comportamenti. Durante la cena Paolo, tra il serio e il faceto, annuncia che lui e la moglie hanno scelto il nome del nascituro: Benito. Uno schiaffo in faccia all’antifascismo e all’origine ebraica della famiglia Pontecorvo. L’inevitabile putiferio che segue e che si aggrava con l’arrivo di Simona fa riemergere tensioni, rancori, misere invidie piccolo-borghesi. Con il colpo di scena finale, ovviamente (questo vale sia per Il nome del figlio che per Cena tra amici).
Il film della Archibugi si muove quindi su tre piani diversi: la copia del precedente (che è, senza se e senza ma, un limite, per me – personalmente- abbastanza grave), la godibilità del testo gestito abbastanza bene da ottimi attori (Golino e Gassmann su tutti) e da una macchina da presa sempre in movimento che coglie sfumature e sentimenti sui volti dei protagonisti puntualmente al momento opportuno e nell’opportuna dimensione prospettica; la reinterpretazione della storia, la onnipresente cosiddetta chiave di lettura.
E’ su quest’ultimo punto che il film si smarrisce (almeno spero, non vorrei che fosse una scelta precisa). Nel gioco al massacro tra destra e sinistra, alla fine viene fuori una marmellata che vorrebbe essere un invito a risanare le ferite e a colmare i fossati che l’Italia si porta dietro dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e che l’ultimo ventennio ha amplificato in modo esponenziale. Come dice Paolo al cognato Sandro: ‘Alle prossime elezioni vota centro-destra, così, a scopo terapeutico.’
Se per ricomporre l’identità nazionale, cosa importante e seria, bisogna pensare di votare la Lega fascista, razzista, omofoba e xenofoba di Salvini-Casapound, la risposta è semplice e sintetica: no, grazie. E non soltanto in memoria di Emanuele Pontecorvo, ma per rispetto di noi stessi.
Esclusi la prima parte un po’ lenta e i flash back retrò, che sembrano presi belli e fatti da un film dei Vanzina, con tanto di canzone di Lucio Dalla cantata a squarciagola e in coro, ora come allora, il film è, comunque, godibilissimo e divertente.
Rimane la perplessità.
Si può anche vedere.