Scritto nel 1968 e tradotto e rappresentato l’anno successivo in Italia da Raf Vallone (con Mario Scaccia) – messa in scena che non ho visto e di questo mi dispiaccio moltissimo-, il dramma di Arthur Miller Il prezzo  torna sulle scene italiane  per la traduzione di Masolino D’Amico e la regia di Massimo Popolizio.

In un appartamento di un palazzo che sta per essere abbattuto e dove sono accatastati i mobili di famiglia, in vendita dopo la morte del padre, si ritrovano due fratelli, la moglie di uno dei due e un vecchio rigattiere ebreo-russo. Victor (Massimo Popilizio) è un poliziotto senza prospettive e prossimo alla pensione, cedevole, buono, accomodante: ha assistito il padre fino alla morte, anche finanziariamente, e per questo ha rinunciato all’università e messo a rischio il rapporto con la moglie Esther (Alvia Reale), che non lesina a mostrargli il suo sottile disprezzo; Walter (Elia Schilton) è il fratello ricco e avido, medico affermato, cinico, senza cuore né rispetto; non si vedono né si sentono da sedici anni. Solomon ( Umberto Orsini) è il rigattiere: compra e vende mobili, ed è un abile quanto sfrontato negoziatore: il prezzo, tra lazzi, battute, riflessioni e invettive, alla fine, lo decide lui. Nell’incontro/scontro tra i personaggi si materializzano i temi: l’amore (filiale, fraterno, coniugale), la caducità della vita (scandita dai colpi di maglio che sta sgretolando altri edifici nel quartiere, dai mobili accatastati, dall’appartamento vuoto e spoglio), gli interessi materiali (i soldi, le proprietà, la carriera). In un processo ininterrotto di  scavarsi dentro senza risparmio e  spiattellarsi in faccia dure e dolorose verità.

Ma è chiaro che Miller usa la storia per parlarci (a volte direttamente, a volte per metafore) di ben altro: sullo sfondo ci sono la Grande Crisi, la disoccupazione, la miseria, il difficile cammino di ripresa. Ma anche la Grande Crisi è un pretesto: Miller va ancora oltre. Il dramma vero è il capitalismo, in particolare quello americano, che tutto mercifica e che per tutto ha un prezzo. Anche i sentimenti, i valori, le idee hanno un prezzo. Come in Uno sguardo dal ponte quello che va in scena non è un dramma di un amore impossibile e proibito, ma la miseria umana dell’immigrazione e della quasi impossibile integrazione e In morte di un commesso viaggiatore  dietro il rapporto padre-figli si celebra il funerale del mito americano della vita di successo, cui tutto va sacrificato, così ne Il prezzo  un dramma familiare diventa la rappresentazione della crisi ciclica e inevitabile del capitalismo: il  rapporto tra fratelli è rapporto di classe, mentre un padre-Moloch tutto ha divorato ( e ancora divora, anche da morto): affetti, denaro, ricordi, vite. Con i mobili sono in vendita i destini di tutti i protagonisti del dramma, che trascorrono le loro esistenze nell’incubo immanente del crollo (il rombo del maglio ce lo ricorda con periodicità ciclica).

Popolizio in parte estremizza alcuni spunti comici che Miller ha diffuso nel testo, soprattutto nelle battute e nei comportamenti di Solomon, che Umberto Orsini esalta con mirabile capacità interpretativa. Il (quasi) buffonesco proporsi di Solomon nasconde due verità: da una parte serve al personaggio a mascherare il suo sostanziale spirito rapace: tutto si valuta, tutto si tratta, tutto si compra; dall’altra, a distrarre lo spettatore dalla cupezza del dramma familiare, per farlo concentrare sul vero dramma , quello della società in cui viviamo e da cui non riusciamo da due secoli a uscire in modo definitivo.

Belle ed appropriate le scene essenziali, significative e non disadorne. Ottima la recitazione corale. Un piacere andare a teatro.

Da non perdere.