Premetto che non ho letto l’omonimo romanzo di De Cataldo e Bonini e, quindi, non so quanto il film sia fedele o meno al testo, ma considerando che gli autori hanno partecipato anche alla sceneggiatura, credo di sì. Premetto anche di aver visto il film là dove, due giorni prima, l’intera troupe lo ha presentato e cioè al Cineland di Ostia, ma al di fuori di quell’ufficialità – seppure infiltrata da mafiosi ostiensi- e assieme ad altri 200 spettatori, che quelle zone periferiche di Roma più o meno le conoscono, allo spettacolo delle 16, di domenica pomeriggio.

Trovo puntuali le precisazioni di Amendola e Favino, che in un’intervista in tv, hanno tenuto a sottolineare che il film sia a forte caratterizzazione di genere, il criminale, in cui Sollima è specializzato, al limite della maestria, che si manifesta scena dopo scena, ma soprattutto in quelle  in cui la parte violenta, criminale e senza freni dei protagonisti emerge con virulenza: lo schermo è sempre pieno:dei giusti piani, dei giusti colori, dei giusti livelli di inevitabile violenza. Una compattezza espressiva solida; un ritmo narrativo incalzante e  affascinante; una consequenzialità di eventi quasi logici, attesi, eppure in qualche modo inaspettati, perché eccessivi rispetto a qualsiasi ‘logica umana’.

L’impianto è semplice e accattivante. In quei sette giorni che portarono  all’apocalisse (?) del novembre 2011 maturano due fatti di una certa valenza storica: uno universale (si suppone nella finzione che proprio in quei giorni Benedetto XVI confidi ai suoi più stretti collaboratori l’idea epocale di dimettersi dal Soglio di Pietro, avendo ormai capito che le sue forze sono inadeguate a combattere malaffare, politica e delinquenza che allignano ormai in Vaticano, dove i mafiosi sono di casa e dettano ordini);uno di storia (mediocre) nazionale (Berlusconi, schifato dalle Cancellerie di tre quarti del mondo e in preda alle sue manie erotomani che lo stanno rendendo ridicolo a tutto tondo) si dimette da Primo Ministro. In questi sette giorni la criminalità organizzata deve mettere le mani ( a mezzo di una legge del Parlamento italiano) su Ostia (per i non romani: la periferia marina di Roma), per poterla trasformare in una Las Vegas de’ noantri: prostituzione, droga, strozzinaggio, controllo criminale delle attività.

Ecco che entrano in scena, quindi, gli attori di questo piano: Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino), deputato della Repubblica e referente politico; Samurai (Claudio Amendola), capo della criminalità organizzata e referente per ‘l’affare’ delle famiglie mafiose del Sud; Aureliano ‘Numero 8′ Adami (Alessandro Borghi), figlio di un compagno d’armi dei primi due;  Manfredi  Anacleti ( Adamo Dionisi), capo di una famiglia di  ‘zingari’ che vogliono fare il salto da semplici cravattari  a mafiosi in grande stile. Ma droga, donne, mediocri rivalità personali e un modello di relazioni basato solo e unicamente sulla violenza fisica complicano tutto, in modo irreversibile. Perché alla fine l’Apocalisse arriva davvero.

Se i riferimenti fossero semplicemente fantapolitici, il film sarebbe veramente un piccolo capolavoro, seppure di genere. Ma invece va un po’ avanti, ma troppo poco; e si ferma troppo presto. Il risultato è complessivamente ambiguo e in più di un passaggio diventa reticente e molto, molto qualunquista. E non va bene. Soprattutto oggi, e soprattutto a Roma.

A un osservatore attento della politica italiana risulta chiaro che il capo di governo in fuga è Berlusconi, ma il film non lo dice: allo spettatore il compito di ricostruire fatti e situazioni. Malgradi non è solo un politico corrotto, ma un camerata di Samurai e del padre di Numero 8, terroristi dei NAR, gruppo eversivo fascista degli anni ’70 e ’80: gentina che ha sulla coscienza, tanto per dire, la strage alla Stazione di Bologna. In quel 2011, quando il questore di Roma – di fronte alla mattanza tra bande rivali per le strade di Ostia- sosteneva pubblicamente che ci trovavamo di fronte a normale livelli di delinquezialità e non certo a fenomeni mafiosi, il Ministro dell’Interno era il leghista Maroni e il Sindaco di Roma Alemanno. Ma questo bisogna saperlo prima: il film se ne guarda bene dal dire e in particolare dal far vedere. E guardandolo, mi sono chiesto: quanti di questi miei duecento compagni di visione sanno? Quanti hanno fatto 2+2?

E qui è il bello (o il brutto): la polizia, le cosiddette forze dell’ordine, non si vedono mai nel film (solo dopo un’ora i Carabinieri che ripescano il corpo di una povera prostituta, morta in un festino di sesso e droga con Malgradi). Il mondo di Suburra non è neanche il Mondo di Mezzo: è altro, quasi parallelo. Come se la gente comune non ci fosse. Forse spaventata, forse superficiale, forse connivente: ma non c’è.

Samurai ha in bocca due battute che mi hanno fatto rizzare i capelli (quei pochi che ho). La prima è quella che dice al camerata che si è fatto vent’anni senza parlare e che ora batte cassa: ‘Io l’idea ce l’ho qui’ ( e si indica il cuore). E poi si alza, se ne va e lascia il segnale di farlo fuori (cosa che regolarmente accadrà nella scena successiva). L’altra, nel finale, quando tutto si è sfaldato, rispondendo ai ‘soci del Sud’, preoccupati perché stanno uscendo di scena i referenti politici: ‘Vorrà di’ che ne troveremo altri, magari dall’altra parte’.

E la scena del ‘popolo di onesti cittadini’ che marciano verso Palazzo Chigi il giorno dell’Apocalisse, senza bandiere, senza identificazione politica, ma solo ‘cittadini’, mette paura – per superficialità e pressappochismo. Manca solo la pubblicità del sito di Beppe Grillo e poi c’è tutto.

Non lo so, ma si poteva fare di più e meglio, soprattutto in termini di chiarezza.

Tolte queste non poche e tanto meno veniali pecche, il film è ben fatto. Sicuramente da vedere, ma avendo ben chiaro quali sono i riferimenti di fondo, altrimenti …