Complessivamente Arance e martello di Diego Bianchi non si può certo considerare e valutare un grande film e, a tratti, neanche un film venuto bene. Ma senza dubbio ha all’interno della narrazione una serie di spunti e qualche situazione che meritano una riflessione, non fosse altro che per ciò che sta accadendo all’interno del Partito Democratico e, a Roma, a livello di Mafia Capitale.

La storia è semplice ed emblematica: in pieno agosto, in una Roma del 2011 sopraffatta dall’afa e dalla noia –  rappresentate da una fontanella e da una serie di spleen individuali e collettivi (gli anziani al bar, che commentano vita, politica e tempo che passa; i fascistelli senza orizzonti e senza valori, che non siano roboanti nullità; l’improbabile radio di quartiere che sopravvive di banalità), arriva un’ordinanza del Sindaco, ovviamente Alemanno, che impone il trasferimento del mercato rionale, che deve essere rimosso, perché  occupa – dico io: in modo indecente- gran parte della strada.

Al mercato, per caso, si incontrano offerta e domanda politica: da una parte un gruppo di militanti del Partito Democratico, che con tanto di banchetto va a tentare di raccogliere firme per chiedere le dimissioni di Berlusconi (come se per mandar via Berlusconi bastasse una petizione popolare); dall’altra, i commercianti del mercato, italiani e immigrati, in linea di massima di destra e senza alcuna affinità con il PD,  i quali però, in mancanza di qualsiasi altra opportunità, al PD si affidano per cercare di bloccare l’ordinanza di trasferimento.

E il PD si attiva: la sezione convoca una riunione, cui partecipano uno sparuto drappello di presenti in città. Rappresentano le anime del PD: un ex democristiano, una ricercatrice avvenente e complessa, vecchi comunisti incalliti, giovani spaesati ma volenterosi, una segretaria energetica ma priva di linea, che non sia l’antiberlusconismo. Si vota: e tra voti e dichiarazioni, alla fine si decide di non decidere. Quando questa non decisione viene comunicata ai commercianti del mercato, scoppia la rivolta e la sezione del Partito Democratico viene occupata e i militanti sequestrati, con la ‘forza’.

Arrivano la Polizia, il Sindaco, l’Assessore Quattordicine (!) e il caos aumenta, per poi finire nel quasi nulla: ferragosto è vicino e anche i più resistenti partono per la settimana di vacanza, compreso il regista-narratore.

Film a volte esile, ma con due passaggi importanti. Il primo è il dialogo tra la segretaria della sezione PD e il marito, che a un tratto dice:’Dentro a sta casa siamo rimasti tutti comunisti’. Come per dire: avremo pure fondato il PD, ma tutto è rimasto come prima. Il secondo è il gesto di Irina, una badante – ucraìna, penso- che nella sezione, sequestrata dai commercianti, ad un certo punto prende la teca in cui sono conservati una falce e un martello e la distrugge, perché – come dice lei, che il comunismo lo ha vissuto sulla propria pelle – sono simbolo di dolore e di morte.

Bianchi fotografa bene il dramma del PD  e, soprattutto, dei suoi militanti che vengono dalla storia comunista: non hanno capito, o forse non vogliono, che il Partito Democratico non è lo sviluppo della catena PCI-PDS-DS, ma è inevitabilmente un’altra cosa.

Buona l’idea di Bianchi – anche se non originale- del narratore partecipante con la videocamera, in presa diretta. A volte, però, sembra più un selfie che una testimonianza documentaria  e il film un po’ scade.

Da vedere, per chi, come me, sul PD ha delle idee che non sempre vede realizzate.