Confesso: ero prevenuto. Confesso: avevo un istintivo rifiuto di quello che ritenevo un caso letterario, costruito a tavolino. Confesso: tanto alone di mistero e lo snobismo di fondo mi davano noia. E così ho tenuto L’amica geniale (volume primo) di Elena Ferrante per quattro o cinque anni  su uno  scaffale della libreria, perso tra gli altri libri, e là dove lo avevo messo quando mia figlia me lo aveva regalato,  per un Natale. Vivevo a Mosca, a quel tempo: tra le pagine del libro  ho infilato una fotografia, che ritrae mia moglie e me, insieme ad alcuni  amici, ad una manifestazione sindacale, una quarantina di anni fa: le fotografie sono impietose, ti rammentano senza mezzi termini che il tempo passa. Pensavo di averla sepolta per sempre.

In mezzo c’è stato un trasloco internazionale, la ridistribuzione dei libri in un’altra libreria, ma L’amica geniale è rimasto a vegetare su un altro scaffale. Nel frattempo ho letto centinaia di libri, ne ho scritti alcuni, ho scritto recensioni. Poi, un paio di mesi fa, per caso, dopo trent’anni ho rivisto uno degli amici della fotografia, siamo tornati a frequentarci e, una sera, ho cercato quella foto. E mi sono ritrovato in mano il romanzo della Ferrante.

Considerando che raramente leggo libri di recente pubblicazione (non ricordo chi disse o scrisse che leggeva solo i libri di autori morti da almeno trent’anni), mi sono detto che leggerne uno non mi avrebbe fatto male. E ho letto L’amica geniale.

E ho scoperto un mondo, il mio. Con tutte le variazioni del caso, ma mio. Se a posto di Lenù ci fosse Robè sarebbe lo stesso; se al posto di Napoli dei quartieri poveri e lontani ci fosse la periferia romana dove sono cresciuto negli anni ’50, sarebbe lo stesso; uguale al mio il percorso dell’io narrante che dalle ristrettezze della borgata si sublima attraverso lo studio folle e massacrante. L’amica geniale avrei potuto scriverlo io, beninteso se ne fossi capace.

Il mondo delle due amiche non è solo un universo di povertà, di miserie umane, di violenze gratuite. Non è solo micro-borghesia, sottoproletariato, falso benessere: è plebe. Un mondo plebeo, dove tutti (ricchi e poveri, comorristi e guappi, analfabeti e professori) sono centrifugati per rimanere all’interno di un orizzonte senza speranza. La cultura, lo studio, il sapere, l’auto miglioramento sono l’unica via di uscita.

Il rapporto tra Lita e Lenù sembra, per trecento pagine, il solito rapporto tra due amici di infanzia: c’è sempre uno più coraggioso, più sveglio, meno fortunato. C’è sempre chi si sente meno realizzato e ha paura di girare a vuoto; chi ha le battute meno pronte; chi sembra di aver vissuto in anticipo la vita. Ma la Ferrante (poi parleremo di lei [?]) ci inganna, con maestria e con una scrittura piana, crepuscolare, quasi logora, per il 90% del libro. E scopriamo che l’amica geniale non è Lita, come lascia intendere Elena (Lenù), l’io narrante,  per quasi tutto il libro: l’amica geniale è Lenù stessa.

A questo punto i sospetti, le vaghe intuizioni che avevi avuto nel corso della lettura prendono corpo, si concretizzano, diventano la chiave: Lita e Lenù non sono due amiche, per il semplice fatto che non sono due persone, ma sono la stessa persona. Lenù sarebbe stata per tutta la vita Lita, se non avesse scelto, con abnegazione, sacrificio, volontà di essere qualcos’altro e nemmeno Lenù, bensì Elena. L’amica geniale è un lungo percorso di iniziazione alla vita, un processo contraddittorio e complesso di crescita, di formazione intellettuale e morale: un percorso che definirei massonico, perché non c’è nessuno Spirito Santo, che alla fine, ti sceglie e ti salva. Lita è la pietra grezza, che viene levigata e squadrata attraverso la conoscenza, fino a diventare Lenù, fino a diventare Elena. Un processo maschile. E qui veniamo a Elena, Elena Ferrante: non so se sapremo mai chi sia veramente. Ma io penso, anzi ne sono quasi certo, che è un uomo o, se è – come si dice- un collettivo, è formato – in prevalenza- da uomini.

Da leggere, perché – oltre che bello- è utile, soprattutto per queste nuove generazioni che faticano a trovare e a seguire l’ago della bussola.