Le voci di dentro è forse il pezzo teatrale più pirandelliano di Eduardo De Filippo. Tutto si svolge e si sviluppa sulla base di un equivoco, di un sogno:  Alberto Saporito (Toni Servillo) sogna che i vicini – una famiglia  piena di miserie umane portate con piccolo-borghese dignità- abbia commesso un delitto efferato, uccidendo una persona (un amico) e facendo sparire le prove. Nella mente del protagonista sogno e realtà si confondono e, quindi, denuncia i presunti assassini alla polizia, che li arresta. Ma poi si rende conto dell’errore e ritratta. Mettendo in moto altre conseguenze (la polizia che indaga comunque, le delazioni di ogni singolo membro della famiglia Cimmaruta, le viscide attività del fratello).

Nel testo di Eduardo si incrociano e si intrecciano molti temi pirandelliani: sogno e realtà, la (falsa) dignità piccolo borghese, il tradimento dei valori comuni, l’incomunicabilità. Tutti, però, portati ad un livello superiore di analisi e di valutazione: Pirandello è dentro le contraddizioni e, in sostanza, sostiene che questa è la vita e questo è il mondo, e nulla possiamo fare; De Filippo, al contrario, si estranea dal contesto, vede le brutture e le miserie dell’uomo e della società e le combatte, anche se con un fondo di  ironia, che nasconde  la paura – mai detta, ma presente- di essere un donchisciotte qualunque contro l’ineluttabilità  del destino dell’uomo.

Alberto Saporito è un uomo solo, che non riesce più a comunicare con nessuno: con i vicini, col fratello, perfino con Zi’ Nicola, un eremita moderno, che vive in una palafitta dentro casa e parla solamente utilizzando mortaretti e fuochi d’artificio ( i Saporito sono organizzatori di feste popolari).

Scritto in una settimana, per doveri contrattuali,  in una stanza d’albergo a Milano, Le voci di dentro evidenziava la lucida disillusione per il clima socio-politico negativo che a fine ’48 si affermava in Italia: gli ideali della Liberazione, del cambiamento, della Repubblica si andavano a mano a mano dissolvendo e l’Italia si ripresentava sulla scena con la solita e ben nota meschinità.

Toni Servillo ha preso il testo di Eduardo e senza forzature  di reinterpretazioni avanguardistiche lo ha riproposto, con una scenografia essenziale, imperniata sulla luce abbagliante e sulle trasparenze, nel gioco del vero o del presunto. Perché l’elemento di avanguardia di Le voci di dentro è il testo: scritto sì nel 1948, ma eterno nelle sue drammatizzazioni dei sentimenti umani, e assolutamente attuale in questo 2015 di incertezze e paludi.

Un cast corale, con Toni Servillo maestro delle sfumature e , soprattutto, delle pause; Peppe Servillo con una mimica quasi da marionetta e una brava Chiara Baffi, che dà forza e corposità al personaggio della cameriera.

Unico neo, ma questo può essere un problema del Teatro Argentina, l’udibilità e la decifrabilità di alcuni dialoghi, in vernacolo stretto e troppo sussurrati.

Da non perdere.