Margherita (Margherita Buy) e Giovanni (Nanni Moretti) intrecciano le loro vite, distanti e diverse, attorno al letto d’ospedale della loro madre morente (una spettacolare Giulia Lazzarini), una professoressa di lettere, amata dai suoi allievi che ancora dopo venti o trent’anni passano a trovarla: per loro è stata insegnante e maestra di vita ; per  i figli è stata semplicemente la mamma, con gli amori, le contraddizioni, le contrapposizioni e il naturale vincolo , unico e esclusivo, che corre – nel bene e nel male- tra madre e figli.

Moretti mette in campo se stesso – il film è chiaramente autobiografico- sdoppiando la sua presenza: in Mia madre non c’è più l’Apicella dei primi film e suo eponimo, ma c’è un doppio Nanni Moretti. Da una parte Margherita, regista affermata, che cerca faticosamente di trovare un equilibrio nella sfera personale, mentre lavora alla realizzazione di un film che descrive il dramma sociale più grande della nostra epoca, i licenziamenti e la disoccupazione; dall’altra Giovanni, un ingegnere che vive la sua maturità alla ricerca di qualcosa di appagante, che il lavoro (sicuramente) e la vita (forse) non sono riusciti a dargli. Due personaggi quasi estremi: lei -nevrotica, a volte sopra le righe, con difficoltà di comunicazione-  che vede nella realizzazione del film ‘politico’ l’unico mezzo per comunicare con il mondo esterno (famiglia, amori, colleghi, amici); lui – dimesso, quasi inerte, buono- che sembra aver capito che la vita è una sola e non vale sprecarne niente.

Il film è un intreccio tra l’agonia della madre, le cure materne dei figli (più sensibili quelle di Giovanni, rispetto all’approssimazione da mancanza di tempo di Margherita, che si deve dividere tra lavoro, amori più o meno riusciti, è il ruolo di madre separata) e la lavorazione del film.

Il film nel film è un altro sdoppiamento: le due narrazioni corrono parallele e non si incrociano mai, se non nei personaggi che agiscono nei due piani.

E’ John Turturro  che assume su di sé la nevrosi snervante tra finzione e realtà (tanto che ad un certo punto nelle difficoltà di una scena e in preda all’ira, dice portatemi fuori di qui, nella realtà), interpretando il ruolo di un investitore americano che compara un pezzo d’Italia e scarta gli italiani, i lavoratori (caso di attualità, se proprio oggi questo è avvenuto per una importante azienda italiana).

Il film è la narrazione dell’inevitabilità della morte, dell’amore filiale nelle diverse sfaccettature, della centralità delle persone in quanto tali e non in quanto soggetti politici (anche se questo aspetto ha la sua importanza), della caducità della vita, della memoria (‘Lucrezio, Tacito. Che fine faranno tutti quei libri…’ sussurra a se stessa Margherita, pensando all’eredità di insegnamenti che andranno comunque perduti, con la morte della madre), dei sentimenti (amore – materno, filiale, di coppia-).

Tutavia Moretti non ci dice, e forse non ce lo vuole (ancora) dire, qual è la parte del crinale in cui oggi si trova: se sul versante di Margherita o su quello di Giovanni. Se cioè il personale è, oggi, più politico del politico. O forse è una scelta: ciascuno segue la sua strada, comunque valida.

 

Da vedere, senza riserve.