Se il Rigoletto fosse solamente Questa o quella…, Bella figlia dell’amore La donna è mobile sarebbe un capolavoro, comunque. Ma in più c’è una storia intensa e ricca di colpi di scena (Le Roi s’amuse), scritta da Victor Hugo, il quale – come sempre- non si limita all’intreccio ma sferza con sagace lucidità una concezione della vita e della società personificata dalla Corte reale, con le sue dissolutezze, le sue nefandezze e i bassi profili umani.

Tanto chiara e diretta  la denuncia di Hugo, che il suo dramma fu all’indice per cinquant’anni.

Neanche l’opera verdiana, ridotta in libretto con cura e capacità drammatica da Francesco Maria Piave, si salvò dalla occhiuta censura austriaca: ma alla fine, fatti i dovuti cambiamenti, andò in scena nel 1851. Come è noto, il Rigoletto, assieme al Trovatore e alla Traviata, rappresenta la cosiddetta trilogia popolare, dove la storia  e l’intreccio sono premianti sui contenuti per così dire ideologici. Ma il testo ha una sua forza in sé che spinge alla drammatizzazione: Rigoletto è un riflessione a tinte fosche sulle differenze sociali, la dissolutezza, la disabilità, il tramonto inesorabile di epoche storiche: perché ciò che è umano è storico e in quanto tale destinato a declinare , a svanire.

La regia di Muscato coglie l’elemento cardine dell’opera, la dissoluzione e la decadenza: trasporta la storia dal XVI secolo a un qualcosa che va dalla bella epoque al mondo di Scott Fitzgerald. Un mondo fragile,  le cui magnifiche sorti e progressive vivono in un empireo dorato, minato alla base dai suoi stessi ideali. Un mondo maschile e maschilista. Fosse oggi, sarebbe la stessa cosa.

In questo contesto il personaggio di Rigoletto non è più il giullare di corte, ma un servitore, un inserviente, un lacchè. Che, per compiacere il padrone, sbeffeggia un uomo offeso  nella dignità personale e dei suoi cari. Su Rigoletto ricade la maledizione di quest’uomo: e la maledizione è la trave portante di tutta l’opera. Rigoletto pagherà a caro prezzo il suo, inutile, servilismo.

Dice Leo Muscato nei suoi appunti di regia: ‘ E’ un dramma a tinte fosche, dal gusto espressionista. Tutto è netto, chiaro violento nella sua ineluttabilità. Il travestimento è ciò che lega i personaggi: tutti fingono di essere ciò che non sono, e la bella faccia del Ducato di Mantova è solo la maschera di un mondo in disfacimento’.

La regia è brechtiana, non so se per scelta o per risultato: la scena iniziale con tanto di luminaria col nome del palazzo del duca introduce il concetto di ‘baraccone’ (tutta la storia è un baraccone) e estrania completamente lo spettatore (le didascalie proiettate fanno il resto). Ottimi e puntuali tutti gli interpreti. Discreta e docile  l’orchestra, mai invasiva: solo nei crescendo drammatici forte e sostenuta. Sempre al servizio e mai predominante.

Se possibile, da non perdere.