John May (Eddie Marsan) è un umile e oscuro impiegato di Londra, che si occupa di dare degna sepoltura per conto del Comune a chi muore in solitudine : in genere gente povera, d’una solitudine che ha ucciso tutti i sentimenti e i rapporti umani (anche quelli familiari),  marginale. Fa il suo lavoro con precisione maniacale da ventidue anni e il suo obiettivo è di cercare, sempre  e finché c’è la pur minima speranza, di organizzare un funerale degno di questo nome: con prediche (che lui stesso scrive per i parroci) che siano vere e proprie  eulogie; con musiche, che egli stesso sceglie; con il conforto umano di qualche amico o parente del morto, che si ostina a cercare con infinita pazienza . Ma il risultato è sempre lo stesso: alla fine in chiesa o al camposanto è solo lui a partecipare. La sua vita è monotona, povera e squallida come i funerali che organizza. Ma tutto è lindo e preciso, nella sua modesta casa, nel suo modestissimo ufficio, nella sua modestissima persona. Metodico, ma pieno di speranza: dei morti che accompagna nell’ultimo viaggio tiene, con cura, un tenero libro di fotografie. Ma questa sua fiducia di trovare alla fine per qualcuno dei morti uno straccio di solidarietà umana lo porta a rallentare il lavoro: le urne con le ceneri si accumulano, i cadaveri giacciono per mesi all’obitorio. Il Comune non se lo può permettere e lo licenzia: il suo posto sarà preso da altri, meno inclini alla commiserazione, più solleciti nel lavoro. Ma John May ha un caso aperto – un barbone, morto di alcol e solitudine- che vuole risolvere: chiede ai suoi superiori alcuni giorni in più, prima di lasciare il servizio. E così, a spese sue, se ne va in giro e incontra molte delle persone che lo hanno conosciuto: balordi e vagabondi, un vecchio compagno di squadra di un circolo sportivo, una sua occasionale compagna – da cui ha avuto una figlia che non ha mai conosciuto-, un commilitone con cui ha combattuto alla Falkland, la figlia, che non vedeva da anni. In quest’ultima John scopre la bellezza della vita: lo stare insieme, amare, provare sentimenti. E per lui tutto cambia, fino al tragico epilogo , quando, pronto ad andare ad incontrare la donna della sua vita, muore investito da un autobus. Solo e senza amici, verrà seppellito a spese del Comune, nello stesso cimitero e nello stesso momento in lui l’altro morto ritrova attorno alla sua tomba (che John gli aveva donato) tutte le persone della sua vita: figlie, nipoti, donne amate, compagni di bevute, camerati di guerra. A dare l’addio a John risorgeranno dalle tombe, per quell’occasione e solo per lui, le decine di persone di cui si era preso cura, al momento della morte.

La natura morta del titolo (Still Life) è John May stesso, ma anche la pietrificata montagna di indifferenza che è a nostra quotidianità. Il suo silenzioso e umile lavoro, apparentemente per cuori di pietra e senza sentimenti, lo vive con una umanità sconfinata, che lo rende capace di capire e considerare dettagli marginali delle vite degli altri: mutande messe ad asciugare su un termosifone, collant appesi alle finestre, dischi conservati senza giradischi, fotografie di altre vite.

Uberto Pasolini sceneggia e dirige in modo magistrale un film dove le immagini dominano su tutto, dove ogni inquadratura aggiunge un tassello alla narrazione, con un rigore formale e una tenuta narrativa veramente eccezionali. Superlativo Eddie Marsan, che dà volto e espressione al protagonista in modo mirabile. Bella la Londra periferica,  solitaria e monotona che ci viene proposta.

Un grande film, da non perdere assolutamente.