Innanzi tutto sgombriamo il campo da possibili malintesi: la scelta di Zingaretti di mettere in scena il dramma di Alexi Kaye Campbell (alias Alexi Konoudouros) – scelta che lo stesso Zingaretti ha rivendicato come una precisa impostazione di attività sul campo- è di capitale importanza, in questa fase storica e , in particolare, in Italia. Dove, al di là delle petizioni di principio, il tema dell’omosessualità è vissuto sempre con una dose più o meno cospicua di fastidio, se non, spesso, in termini negazionisti e omofobi.

The pride è il primo e pluriacclamato pezzo teatrale  scritto da  Campbell, dopo una significativa carriera d’attore, del 2008 . La piece è stata un enorme successo di pubblico e di critica sia nel Regno Unito, sia negli Stati Uniti e in altri Paesi.

La trama si muove su due piani apparentemente scollegati, di epoche diverse, il 1958 e il 2008 (nella messa in scena di Zingaretti, l’attualizzazione è al 2015). Due contesti a mezzo secolo di distanza: il primo è un salotto piccolo-borghese, dove un uomo d’affari per necessità (Philip) e una ex attrice convertitasi a illustratrice per libri per ragazzi (Sylvia), interagiscono con lo scrittore  (Oliver). Tutto è coperto dalle buone maniere e dal falso rispetto reciproco, per poi sgretolarsi nel turbinio dei sensi, perché tra Oliver (omosessuale ma non dichiarato) e Philip (apparentemente etero, ma inconsciamente omo) si insinua il desiderio e l’attrazione fatale. Ma Philip si ferma sulla soglia: cede ai sensi, ma si rifiuta di accettare la sua omosessualità. Perché siamo nel 1958. Sylvia assite a tutto, senza forza per cambiare o intervenire, in una passiva presa di coscienza individuale.

Diverso l’ambiente e lo sviluppo nel 2008 (2015): qui il problema è la fine di una relazione consolidata tra Oliver (giornalista) e Philip (fotografo), con Sylvia, loro amica comune, che cercherà di ricostruire il rapporto in crisi tra i due. Con lieto fine.

Stessi nomi dei personaggi, stessi attori che li interpretano.

Sia Campbell che Zingaretti mettono l’accento, in diverse dichiarazioni pubbliche, sull’elemento generale dell’amore, della coscienza di se stessi, della capacità di ognuno – se vuole- di cercare le vie della felicità. Senza moralismi e a prescindere dalle tematiche omosessuali (presentate a tinte forti, nel linguaggio e in alcune scene).  Questa necessità di puntualizzare è segnale inequivocabile che il testo sia in qualche modo ‘eccessivamente’ orientato alle tematiche e alle problematiche omosessuali. Cosa che, è ovvio, non è un problema, ma in qualche modo rende più difficile l’identificazione delle tematiche generali. I cinquant’anni che intercorrono tra le due storie, sono, nella nella lettura di Campbell, positivi: dalla tetra storia perbenista e violenta del ’58, si passa ad una quotidianità , sboccata e un po’ isterica, dove però l’amore e l’amicizia sono l’elemento portante. Dove la tolleranza è diventata coscienza, dove il diverso non è più diverso, ma è, più semplicemente e umanamente, una parte del tutto.

Detto tutto questo, trovo il testo di Campbell tutt’altro che un capolavoro, con citazioni teatrali da Pinter e da Osborne, ma senza la grandezza drammatica del primo e la forza di rottura (seppure ineguale e contraddittoria) del secondo.

Buona la recitazione corale.

Da vedere, almeno per testimonianza.