Riprendere  un vecchio soggetto per farne un film, dopo che Hithcock ci ha già messo le mani (sessanta anni prima), è decisamente un atto di coraggio o di folle sfrontatezza, soprattutto se questo è il film con cui vuoi rientrare nel circuito, dopo otto anni di forzata assenza.

Stephen Elliot , il regista australiano famoso per Priscilla la principessa del deserto, con una certa maestria utilizza lo stesso materiale ma produce una storia completamente diversa. Se Easy Virtue (in italiano divenne Virtù facile) di Hitchcock  è un discorso sulle sconvenienze morali e sul libertinaggio femminile, Easy Virtue (in italiano l’improbabile Un matrimonio all’inglese)di Elliot è un affresco sulla decadenza del sistema economico e di valori dell’Inghilterra post vittoriana, destinata, da lì a qualche anno, a rinunciare al suo inutile impero.

Il tutto giocato sullo scontro tra due concezioni della vita e della donna, personificate dalla sempre perfidamente eccellente  Kristina Scott-Thomas (la suocera) e una corposa spregiudicata Jessica Biel (la nuora), in un coro di interpreti bravi e sorretti da una sceneggiatura e da dialoghi sempre al massimo di tensione dialettica, con Colin Firth (suocero) che confeziona un delicato personaggio, segnato dalla guerra e disilluso dai valori aristocratico-mediocri della borghesia benestante e in via di fallimento delle campagne inglesi negli anni’20 del secolo scorso.

La ritualità dell’aristocrazia inglese (balli, feste di beneficenza, caccia alla volpe, ecc. ecc.) si scontra di volta in volta con la pratica elementarietà della moglie americana (americana di Detroit, peraltro e con ciò figlia del carbone e dell’acciaio), che rompe schemi, mette in crisi abitudini, ridicolizza conformismi tanto schietti quanto meschini.

Il processo è segnato e la fine inevitabile  porterà alla rottura, non solo con l’arcigna suocera. Con un finale, in parte, a sorpresa.

Un tango scandaloso (per l’ambiente e per l’epoca) quanto simbolicamente appropriato, definisce lo spartiacque tra il futuro (ambiguo e ambivalente) e il passato, inzeppato di abitudini e ipocrisie, destinate, inesorabilmente, all’oblio.

Belle le immagini della brughiera inglese, la ricostruzione della vita senza lavoro (beati loro!) degli aristocratici, la cura dei dettagli ambientali: pregi tipici  – e personalmente amati e apprezzati- della filmografia anglosassone. Qualche particolare un po’ copiato, qua e là, e qualche cliché inutile. Ma un buon prodotto.

Da vedere.