E’ certamente difficile mettersi fuori dal coro delle critiche entusiastiche (peraltro ben più autorevoli, anzi autorevoli e basta, rispetto alla mia) che il film di Alejandro Gonzàlez Inàrritu ha raccolto in Italia e all’estero, né, in verità, è mia intenzione. Piuttosto, avverto alla fine della visione, avvenuta da qualche tempo e sulla quale ho lasciato che si posasse per un po’ la calma della riflessione (per far decantare l’effervescenza), la necessità di scomporre il prodotto pluripremiato ad Hollywood in tanti sottoprodotti o elementi costitutivi del prodotto finale. Perché, se prendessi Birdman tutto intero, avrei difficoltà ad apprezzarlo.
Cominciamo dalla fine, in tutti i sensi: la fine del film e la premiazione con gli Oscar.
Il finale è decisamente ridicolo, con l’ego di Riggan Thomson (Michael Keaton) – un Batman piumato e con le ali, Birdman, appunto- che se ne sta seduto in silenzio sulla tazza del cesso e Riggan, che apre la finestra della stanza d’ospedale dove è ricoverato e si butta nel vuoto; arriva la figlia (Emma Stone) , che – temendo il peggio- s’affaccia e guarda in strada, ma poi, sorridente, volge lo sguardo al cielo e noi immaginiamo (perché non vediamo) che ci sia lui in volo.
Se Emma Stone, guardando in strada, avesse mutato la sua espressione da preoccupata in orrore, sarebbe stato un bel finale: quello che ci propone la sceneggiatura, invece, è banale e crea problemi di comprensione. Ma Riggan/Keaton si è liberato o no delle sue ossessioni?
La premiazione: delle nove nomination, Birdman ne ha trasformate in Oscar 4, ma molto pesanti. Dove tre ci stanno (film, regia, fotografia) e una no, la sceneggiatura. Ne manca una, invece, che ci stava tutta tutta: miglior attore protagonista a Michael Keaton. E non per la performance in sé, ma per aver scelto di interpretare se stesso.
Keaton, infatti, come tutti sappiamo, è stato il Batman di Tim Burton (un Batman che a me , personalmente, piacque molto, a suo tempo): da quel grande successo in poi la sua è stata una carriera in declino.
Ed è esattamente quello che Inàrritu ci racconta, nella sceneggiatura del film: un attore sul viale del tramonto, anche come uomo e come padre, che mette in scena a Broadway (investendo tutti i suoi soldi) una commedia (What we talk about when we talk about love), per dimostrare di essere , oggi per allora, un grande attore e smentire quello che pensa il mondo dello spettacolo e che gli spara in faccia la critica cinica e newyorkese: ‘Tu sei una celebrità, non un grande attore’. Aggiungete a tutto questo un rapporto difficile con la figlia ex tossico-dipendente, i rapporti complessi e fragili con la ex moglie e la nuova compagna, lo scontro con l’attor giovane spregiudicato e bravo (un ottino Edward Norton) e il gioco è fatto. Originale, perché non tratta da un romanzo, ma veramente poco ‘originale’.
Tuttavia, Birdman è la risultante di tanti sforzi creativi e la regia di Inàrritu è stupefacente: il film è un immenso neverending piano sequenza, un continuum che coinvolge e avvolge, a volte creando anche problemi di equilibrio visivo. Solo le notti e le albe che si illuminano nel cielo sopra New York spezzano questo ritmo, in cui ogni scena segue naturalmente l’altra e si passa dal cinema al teatro e dal teatro alla strada e dalla strada a youtube. Sembra una macchina da presa da Candid Camera, e invece è un lavoro di ripresa e montaggio spettacolari. L’effetto speciale più bello del film: perché Birdman è anche un film contro Hollywood e gli effetti speciali, anche se ne è pieno zeppo.
In ogni caso, dubito di quelli che sono contro e poi si beccano i premi ringraziando a destra e a manca, standoci così dentro da vivere anche a Los Angeles.
Cast di attori di grande levatura e bravura, ciascuno nel suo personaggio.
Da vedere, perché è – nonostante i limiti che ho cercato di descrivere- un bel film.