Da Cordova a Napoli; dalle corride ai cantanti neomelodici; da gitana a sottoproletaria, un po’ amante e un po’ puttana, come si autodefinisce in apertura: la Carmen (Iaia Forte) di Moscato e Martone non è una zingara leggera e volubile, ma una donna a tutto tondo che si vuole sentire libera e padrona del suo corpo e del suo destino. Ricorda , per la  sfrontatezza e la franchezza, la Jenny delle Spelonche dell’Opera da tre soldi di Brecht ( e l’opera di Brecht e Kurt Weil ritorna in molti passaggi e nell’impianto narrativo di questa Carmen, e – dal mio punto di vista- questo è un pregio e non di poco conto). E così Martone, con l’aiuto di Mario Tronco e l’Orchestra di Piazza Vittorio (magistrali sia gli arrangiamenti che l’esecuzione), trasforma l’opera di Bizet in un musical noir, dove lo sfacelo ambientale, tra camorra e miseria (umana e materiale), fa da sfondo alla tragica storia d’amore tra il questurino Cosè e Carmen stessa.

La scena, anche nei momenti di maggiore staticità, è sempre in costante movimento e sul palco si fondono, in un continuo cambiamento di ruoli, attori, musicisti (che salgono e scendono dal palco, quando la loro presenza è richiesta all’interno del flusso narrativo), addetti di scena che montano e smontano scenografie (belle funzionali e intelligenti, di Sergio Tramonti), suonano, ballano, cantano e, ovviamente, recitano.

Lo spettatore è chiamato a una continua reimpostazione della prospettiva di lettura, perché costretto a ri-identificare personaggi e interpreti con uno sforzo, piacevole, di ricostruzione del testo.

L’immanenza della tragicità della storia porta inevitabilmente all’epilogo finale, in cui il falso mito della passione senza limiti si traduce nello sport maschilista di sempre: l’eliminazione della donna ‘amata’. Ma la soluzione di Moscato e Martone è diversa: Carmen non muore, ma viene sfregiata e accecata. Così, cieca e disperata, apre e chiude il dramma.

Moscato e Martone dimostrano che si può fare teatro, anche usando testi e storie più che datati, proponendo soluzioni nuove, sentieri di lettura innovativi, messe in scena ricche di intuizioni creative, senza scadere nell’avanguardismo formale e fine a se stesso.

Da non perdere, se possibile.