Il grande merito di Saul Dibb nel prendere in mano il romanzo incompiuto (e ultra celebrato) di Irène Nèmirovsky è stato di andare oltre il testo e far emergere alcuni contrappunti nella storia dell’amore (im)possibile, che nel film e nel libro è il centro su cui tutto grava.
La Francia occupata dalle truppe tedesche è un Paese allo sbando: il Governo collaborazionista di Petain abbandona i suoi concittadini, che sfuggono ai bombardamenti , riversandosi in massa nelle campagne. In un piccolo paesino vive Lucie Angellier (Michelle Williams), sposa di guerra, costretta dal padre – in punto di morte – a un matrimonio senza amore, e imprigionata ora in casa con la suocera, Madame Angellier, arida di sentimenti e ricca possidente, interpretata con la usuale maestria da Kristin Scott Thomas (l’unica francese, seppure d’adozione, in un film incomprensibilmente inglese). L’occupazione del paesino da parte delle truppe tedesche ( la scena dell’entrata dei mezzi cingolati e dei soldati della Wehrmacht, che invadono ogni spazio, in un flusso che parte dalla ‘platea’ e si spande in tutto lo schermo, ha una grande forza comunicativa ) mette in moto tutte le più innominabili bassezze degli occupati: lettere di delazione; donne che cedono ai soldati tedeschi per recuperare un po’ di sesso perso perché i loro uomini, mariti o fidanzati, sono al fronte a combattere i camerati dei loro occasionali amanti; l’aristocrazia locale che fraternizza, senza mezzi termini, con i nemici. Una brutta Francia, con cui, alla fine della guerra e dopo un’eroica Resistenza, i francesi chiuderanno pesantemente i conti.
Tutto questo spesso sfugge alla Nèmirovsky, vittima anche lei della delazione e morta di tifo ad Aushwitz: non vede le contraddizioni di classe (per lei, figlia di ricchi banchieri, il lato della barricata era un altro); non vede l’orrore del nazismo (molti furono gli ebrei che faticarono a capire, agli inizi, almeno), anche se poi ne sarà innocente vittima.
Tra Lucie e il tenente Bruno von Falk (Matthias Shoenaerts) scoppia l’amore, sulle note di una Suite, francese appunto, che Bruno, musicista, compone per sfuggire gli orrori della guerra (ricordiamoci però che dal 1935 i soldati tedeschi giurano, tutti, senza eccezione alcuna, fedeltà a Hitler).
Dibb gioca su questi contrappunti e sulla bellezza delle cose ( la campagna, il borgo antico, la natura) corrotta dalla guerra e dalla morte, con movimenti calligrafici, che trovo un pregio, così come pregevole è la chiusura con i titoli che scorrono sulla calligrafia, piccola contorta ma sublime, dei manoscritti della Nèmirovsky.
L’amore è un sentimento che va oltre gli incolmabili fossati dell’odio fine a se stesso e della barbarie? Dubito, anzi penso proprio di no: non potrei mai amare il mio aguzzino, anche se suonasse la più meravigliosa delle Suite. Forse lo pensa anche Dibb, in un finale senza speranza dove tutto si divide e dove la vita fa giustizia di tutto, anche di quell’amore e il riscatto sarà collettivo e non individuale: la bellezza bisogna costruirsela.
Storia controversa, soluzioni spesso riuscite, formalità filmica eccellente.
Da vedere, senza dubbio, ma avendo in tasca un po’ di spirito critico.